Il condominio tra i vulcani

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Attenzione, questa non è un'esercitazione
(è l'Italia)

Si dice di noi italiani che siamo sospesi fra Europa e Africa; il concetto merita un approfondimento geologico. Europa e Africa in effetti non sono due signore che si incontrano pacificamente in un meeting interculturale: si tratta di enormi placche tettoniche che si sfregano contro, e l'Italia è il risultato di questo morboso strusciamento tellurico. Una terra sismica, con centinaia di terremoti storicamente accertati, e noi siamo quelli che ci vivono sopra. Non l'abbiamo scelto noi – ma è vero che molti di noi, lungo i secoli, hanno deciso di andarsene: verso terre più ricche, più accoglienti, e magari più prevedibili.

Allora è possibile che in un qualche modo nel corso del tempo l'Italia si sia scelta i suoi italiani. Voglio dire (forzando parecchio il povero Darwin) che alcuni caratteri nazionali che siamo abituati a identificare come “pregi” e “difetti” sono semplicemente i più adatti a farci vivere qui piuttosto che altrove.
Fate finta che l'Italia sia un condominio. In una zona sismica. Con qualche vulcano nei pressi. Voi lo comprereste un appartamento? Magari al quinto piano? Magari no. Eppure, se ci pensate bene, lo avete fatto. O lo hanno fatto i vostri genitori per voi. Può darsi che infatti stiate pensando di andare altrove: avete i vostri buoni motivi. Ma questo significa che il vostro appartamento resterà sfitto, finché non arriverà da un rione più povero (e ce ne sono, tutt'intorno) qualche persona un po' più rassegnata di voi. Col passare degli anni, e dei secoli, il condominio tra i vulcani avrà selezionato un certo tipo di umanità.

Di questa umanità si possono dire alcune cose buone: essa è generalmente solidale. Per forza, convive con disgrazie ed emergenze. È generosa, anche nella penuria di mezzi. L'Italia non è il posto migliore dove passare una serata, ma non diventa il far west appena qualcuno stacca la luce (come può accadere in Paesi più “civili”).

L'altra faccia della medaglia sono le superstizioni, i piagnistei, utilizzati come valvola di sfogo ogni volta che ci va male, e ci va male spesso; l'affidarsi alla Provvidenza, non tanto come principio metafisico ma più spesso come statua di gesso o uomo di bronzo (o, più recentemente, cerone) da portare in processione. Tutto questo siamo liberi di trovarlo insopportabile, ma è un fatto che lo sopportiamo, tant'è che siamo qui; magari poi ce ne andremo, o sarà nostro figlio a farlo, dopo averci chiesto conto dell'appartamento che gli abbiamo lasciato al quinto piano.
“Ma siete stati pazzi a comprare qui”.
“Però c'è un bel paesaggio”.
“Che bel paesaggio? È un vulcano”.
“Ma è spento da 60 anni”.
“Perché l'eruzione è in ritardo! E sarà esplosiva! Ci sono resoconti storici! Scappate con me finché siete in tempo!”
“Ma no... ma che modi... vedrai che per altri vent'anni resiste...”
“E dopo?”

Ecco, a caratterizzarci è soprattutto l'incapacità di farci questa domanda: “e dopo?” Può darsi che il vulcano non erutti per un po', che la terra non tremi, che la frana non frani: ma dopo? Perché se non succederà a mio figlio succederà al suo – ma io non sono geneticamente selezionato per farmi questa domanda, altrimenti mi sarei già trasferito in Germania da due generazioni, mi chiamerei Leonhardt e verrei solo in agosto a scuotere la testa di fronte alla sagoma del Vesuvio: quanto ziete pazzi foi italiani a costruire qvi. Appena fulcano tremare, zeicentomila perzone da efacuare? Dofe? Però ziete tanto pitoreski.

"Nessuno ha offerto istruzioni calme, rassicuranti, civili, informate", scrive dall'Aquila il dottor Massimo Gallucci
La mia piccola storia assieme alle centinaia di storie di amici, mi ha insegnato che se avessi avuto una torcia elettrica sul comodino non mi sarei fratturato la colonna vertebrale, se avessi avuto un cellulare a portata di mano avrei chiesto aiuto per me e per il palazzo accanto, se molti avessero parcheggiato almeno un’auto fuori dal garage ora l’avrebbero a disposizione, se in quell’auto avessero (e io avessi) messo una borsa con una tuta, uno spazzolino da denti e una bottiglia d’acqua, si sarebbero tollerati meglio i disagi. Se si fosse tenuta una bottiglia d’acqua sul comodino, se si fosse evitato di chiudere a chiave i portoni di casa, se si fosse detto di studiare una strategia di fuga…. Pensate a chi è rimasto incarcerato per ore senza poter comunicare con l’esterno perché aveva il cellulare in un’altra stanza, o perché non trovava al buio le chiavi di casa, come le ragazze di un palazzo a fianco a me già semi sventrato: 6 ore sotto un letto, con la terra che continuava a tremare, perché la porta era chiusa a chiave, senza una torcia elettrica e senza cellulare per chiedere aiuto!
Aggiungerei: pensate a chi non è stato e non sarà mai trovato perché aveva un affitto abusivo (stranieri e studenti, forse il 90% del centro dell'Aquila) e non aveva un cellulare caricato sul comodino. E quindi? Caso Giuliani a parte, perché la popolazione non è stata allertata per un semplice principio di precauzione?

C'è una risposta sgradevole: la popolazione non è stata allertata perché gli italiani (e gli aquilani in particolare) devono considerarsi sempre allertati. Il cellulare sul comodino, la torcia elettrica nel cassetto, sono precauzioni che ognuno di noi dovrebbe prendere ogni notte. Da un punto di vista razionale potrei dire che uno sciame sismico non anticipa necessariamente una scossa come quella dell'Aquila; da un punto di vista emotivo (di italiano emotivo) aggiungo che lo scorso inverno mi è bastata una scossetta da nulla per dormire sul divano col telefono in mano. Vivere in Italia è questo e lo sappiamo: ci sono le regole (e non le applichiamo), le esercitazioni (e le prendiamo per buffonate)... ma se fossimo persone più razionali e apprensive forse non abiteremmo qui. Perché questa non è una terra per persone razionali e apprensive.

Dovevate comunque allertarci, dicono. Anche in assenza di una previsione scientificamente accettata: per un principio di precauzione. Ma un aquilano che viene avvisato via tv o telefono della possibilità di uno scisma imminente non andrà a letto con un telefono e una torcia a portata di mano: più probabilmente abbandonerà la casa, scenderà in piazza (come s'era visto a Sulmona pochi giorni prima). Il tutto in attesa di una scossa che forse non ci sarebbe stata. O sarebbe potuta arrivare a 100 km. di distanza, in una località dove gli aquilani si fossero rifugiati. O qualche giorno dopo, proprio nel momento in cui gli aquilani decidevano di tornare a casa. A meno che gli aquilani non decidessero di andarsene definitivamente. Ma questo nessuno osa pensarlo. Già, perché nessuno osa?

Osiamo noi. In base a un principio di precauzione, perché deve esistere L'Aquila? Una città di quasi centomila abitanti appoggiata su una faglia. Insediamento medievale, va bene, ma molte rocche medievali le abbiamo pian piano svuotate o trasformate in musei. L'Aquila invece è capoluogo regionale e sede universitaria. Venivano studenti da tutta Europa: anche lì, perché? Ok, gli erasmus sono inconsapevoli, ma gli italiani? Chi, potendo scegliere una sede un po' lontana da casa, opterebbe per una falda sismica?

Qualcuno prima o poi deve aver pianificato di mantenere un grande insediamento lì; la scelta di portarci la Regione e l'Università (fondamentale per l'indotto) l'avrà pur presa qualcuno; qualcuno quindi deve aver fatto uno di quei calcoli che sembra che gli italiani non facciano mai (perché c'è qualcosa di effettivamente osceno in un calcolo del genere). Il calcolo diceva che abbandonare quella terra sismica sarebbe costato di più di sopportare qualche catastrofe ogni tre-quattrocento anni; tanto la gente dimentica presto, e al limite chiederà conto al politico che si è appena insediato. Tanto peggio per quel signore; sempre che non sia abbastanza furbo da farsi inquadrare mentre soccorre la vedova e l'orfano, rivoltando la frittata in suo favore. E cosa vuoi che siano trecento morti, se tre secoli fa erano stati seimila: lo vedi che anche noi col tempo miglioriamo?

Ma ora non vi basta più, volete essere pre-allertati. La terra vi tremava sotto i piedi e siete andati a letto, in case costruite con la sabbia: ma se Bertolaso vi avesse detto qualcosa un'ora prima... non resta che pre-allertare Napoli, a questo punto.
In base allo stesso principio. Il Vesuvio nei prossimi anni esploderà, è chiaro. Nessuno può dirci quando, ma non ha senso restare lì ad aspettare il panico dell'ultimo momento. Ci sono testimonianze storiche abbastanza esplicite: intere città sommerse dai lapilli, nubi di gas roventi. Nei comuni alle pendici bisognerà intensificare le esercitazioni per l'evacuazione. Ma anche in città sarebbe meglio cominciare a dormire con cellulare e torcia a portata di mano. Naturalmente in tutta la provincia va verificato il rispetto delle norme antisismiche, perché vulcano e terremoti vanno a braccetto. Occorre cominciare a pensare a tutto questo e farlo subito.
Oppure fingere che tutto sia sotto controllo e lamentarsi dopo, con le statue di gesso di turno. Ma forse è una falsa scelta, forse è l'Italia che ha scelto noi.
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Vizi italiani (3): siam vecchi (ma mica fessi)

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Giù le mani dai vecchi!
(Sono una risorsa nazionale...)

Tra un signoramia e l’altro bisognerebbe anche cercare di essere ragionevoli. L’Italia è la nazione più vecchia del mondo, quindi è abbastanza scontato che abbia una delle classi dirigenti più vecchie del mondo. Può non piacere, ma ha un senso. Quindi: ha un senso passare mesi e mesi a scontrarsi a videocamere accese sull’età pensionabile? Sì, un senso ce l'ha eccome: perché per quanto l’argomento possa sembrare poco sexy, è questo che intriga la maggior parte degli italiani: non la guerra in Iraq, non la pena di morte del mondo, non la droga in periferia: la panchina ai giardinetti. Può dare fastidio, ma ha una sua logica strutturale (e se poi, dopo esservi lamentati, andate a vedere i Genesis al Circo Massimo, in fondo siete vecchi dentro anche voi).

Quindi va bene, avanti col dibattito: potrà sembrarvi logorante, ma in fondo è democrazia. Quello che invece non capisco è il concetto di conflitto generazionale; ovvero, lo capisco benissimo, ma non mi convince molto. Gli alfieri dell’innalzamento dell’età pensionabile (Bonino in testa) insistono sul concetto: se continuiamo a sborsare per baby-pensionati di 58 anni, non avremo soldi per le giovani generazioni che ne han tanto bisogno. Ora, magari Bonino & company potrebbero aver ragione. Ma non sono convincenti, e le loro istantanee non ci restituiscono l’immagine del mondo in cui viviamo. Se guardo fuori dalla finestra non vedo nessuna trincea di pensionati, assediata da giovani squattrinati e famelici. Quello che vedo è un sacco di ventenni scapestrati che fanno ancora molto affidamento sulla pensione di mamma e il lavoretto in nero di papà. Insomma il conflitto generazionale, come lo vedono i politici, ha tutta l’aria di una fantasia nata alla buvette di Montecitorio.

Provate a mettervi in un 25enne di oggi (per alcuni di voi non sarà difficile). Da una parte vedete una generazione di pensionati e pensionabili che ha votato il centro-sinistra, ha vinto le elezioni (seppure di striscio), e adesso – giustamente – difende lobbisticamente i suoi interessi. Che non sono i vostri, è chiaro. Dall’altra parte invece chi c’è? Ci sono i giovani? No: ci sono politici che sostengono di voler innalzare l’età pensionabile per risparmiare soldi da… dare ai giovani? In che forma? Sul serio? Ci crediamo?

In pratica, caro 25enne: da una parte hai tuo nonno, dall’altro Emma Bonino o Padoa Schioppa. Di chi ti fidi? A chi lasceresti il malloppo? Io non avrei un dubbio, neanche un po’. Diamoli al nonno, è più probabile che alla fine ti arrivi qualcosa. Conflitto generazionale? Davvero i giovani sarebbero così stupidi da mettersi contro i vecchi, che in Italia sono la maggioranza? No, non ha senso. I giovani, istintivamente furbi, hanno probabilmente capito che in Italia i vecchi vanno utilizzati come una risorsa. Perché sarà vero che non abbiamo petrolio né diamanti, e anche a metano non siamo messi benissimo, ma vecchi pensionati ne produciamo a profusione. E allora sfruttiamoli, no? Del resto, come fa notare Suzukimaruti, funzionano da dio. Sono spesso più produttivi di noialtri. Altro che panchina: continueranno a lavorare per altri 10 anni, salvo che lo faranno in nero. Spendendo poco, perché sono risparmiatori di natura… E secondo voi chi erediterà tutto quanto?

Se io fossi un 25enne, probabilmente farei molto più affidamento sull’eredità del nonno pensionato che sul destino del mio TFR. La mia prospettiva a lungo termine non esclude lo squagliamento delle calotte polari e l’emigrazione nella fertile Terra di Baffin; secondo voi posso avere fede nella sopravvivenza dell’INPS di qui a 40 anni? Inoltre, se avessi 25 anni probabilmente sarei un precario, in attesa che un vecchio vada in pensione per prendere il suo posto. Secondo voi accenderò ceri a Maroni o alla Bonino, che gli innalzano l’età pensionabile? Ma neanche un po’. Io voglio che vada in pensione, anche perché probabilmente è mio nonno, o mia madre, e una volta in pensione potrò lasciarle il bambino il pomeriggio, risparmiando un fracco di soldi su asilo e baby-sitting.

Adesso coraggio, onorevole Bonino, mi dica che i soldi ricavati dallo scalone aveva intenzione di devolvermeli sotto forma di assegni per l’asilo e per il baby-sitting. Su, andiamo, me lo dica, coraggio. Non voleva darli a Montezemolo e ai suoi poveri piccoli imprenditori, vero? Non voleva darli a Pannella per la sua nuova campagna mondiale sui diritti civili, no, no. Voleva darli a me. E io volendo potrei crederle, in fondo ha una faccia abbastanza rassicurante. Invece mi fido più di mio nonno.

Se ne avessi ancora uno. Ma sono morti tutti e due abbastanza presto.
Facevano mestieri usuranti.
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Vizi italiani (2): pappagalli

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Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
– ops.

La ragazza automatica

Dopo tanto, il video originale di Frangetta non lo avevo ancora visto. È carino.
Per i non iniziati: il pezzo è stato diffuso su internet, mesi fa, col passaparola con i nuovi fenomenali mezzi di condivisione del web 2.0. L’intenzione degli autori viene subito intesa e apprezzata: si tratta di stigmatizzare le abitudini e i tic linguistici di un determinato tipo umano, la ragazza-con-frangetta che studia a Milano e passa lunghe serate appoggiata al muro dei locali, a togliere e mettere gli occhiali grossi. Il suo discorse è una semplice enumerazione di cose che si fanno e di persone che si incontrano; l’ironia è evidente, ma non viene mai esplicitata. Con voce d’automa la ragazza descrive un mondo di abitudini e passatempi che dovrebbero descrivere una personalità originale, e invece sono terribilmente omologati. Ottimo. Gran pezzo, tra i capolavori della misoginia contemporanea. Finché...


Scrivo-una-“Frangetta”
La-mando-a-Radio-DeeJay


...Finché non è piaciuto anche a Linus, di radio Dj, che lo ha trasformato in un tormentone del suo programma, ed è arrivato al punto di lanciare una simpatica iniziativa: “mandateci le vostre frangette. Come parlano le ragazze snob di Roma, Torino, Bologna, Catania, Castellamare di Stabia?”. Linus è simpatico, e quello che ha fatto è molto interessante, ancorché perverso. Da buon intrattenitore italiano, ha ragionato così: se una cosa è divertente, moltiplichiamola per cento e sarà divertente cento volte; non solo, ma occorre tener presente del localismo italiano, perché i romani non ridono come i milanesi o i fiorentini o i goriziani. Tutti si devono sentire protagonisti, tutti hanno una parlata divertente. E non va sottovalutato il risultato finale: un atlante d’Italia dei ritrovi delle ragazze snob.
Ne è nato un vero e proprio genere letterario, che se in realtà ha smesso subito di essere divertente, ha continuato a lungo ad essere interessante; vedasi per esempio questo intervento di Roberto Moroni che confrontando la versione originale con la copia romana, definisce i ritardi dell’ironia romanesca (ancorata al vernacolo) rispetto al cosmopolitismo milanese.

E allora che male c’è nella proliferazione di frangette? Beh, è un paradosso enorme. La canzoncina nasceva per irridere l’omologazione culturale di un gruppo di persone, e si è trasformata in un tormentone super-omologato, con tanto di bollino di radio dj e varianti regionali. Ora la ragazza automatica potrebbe concludere il pezzo così: Scrivo-una-frangetta. La-mando-a-radio-Dj.

Sarà che sono un ingenuo, che mi ostino a credere che la parola serva a cambiare le persone. Persino una canzoncina come questa, secondo me, avrebbe dovuto servire a smuovere la coscienza delle frangette. È la stessa folle idea che aveva Flaubert, mentre redigeva il dizionario dei luoghi comuni. Lui li enumerava tutti per consumarli, per impedire alla gente di usarli più. Ecco. Io credevo che la Frangetta originale servisse a far sì che le frangette smettessero di comprare Taschen come se fossero soprammobili. Ma in Italia non funziona così. In Italia le ragazze che ancora non si sentivano abbastanza frangette si sono messe ad ascoltare la canzone prendendo appunti sugli occhiali grossi e sui registi importanti da scaricare. Siamo un popolo di pappagalli. È sempre così.

Moretti-Ricci-De Beauvoir

Viene sempre in mente la stessa scena di Ecce Bombo: “Come campi?” “Faccio cose, vedo gente”. Il pubblico ride. Ma era una scena drammatica, di un film malinconico e moralista. La ragazza-automatica di quei tempi non portava la frangetta, viveva di espedienti e non aveva progetti per il futuro: Moretti la descriveva perché voleva consumarla, distruggere il modello, impedire che altre ragazze cominciassero a vivere così. E invece è stato ridotto a un tormentone, pure lui: ci siamo sorbiti trent’anni di ragazze divertenti che ti dicevano “faccio cose, vedo gente”, con la scusa dell’autoironia. L’autoironia. Ma essere autoironici a diciott’anni e un po’ come studiare sodo per diventare sfigati da grandi.

Poi mi viene in mente un altro italiano con la barba, Ricci. Lui secondo me ha cominciato con le migliori intenzioni. Voleva far ridere la gente sui fatti del giorno, non c’è missione migliore, anch’io ne sono convinto. Poi ha notato che la maggior parte del pubblico non rideva perché capiva le battute: rideva per simpatia, per imitare gli altri. La maggior parte in effetti non capiva nulla e rideva perché aveva paura che gli altri non se ne accorgessero. Al punto che rideva anche se lo sketch non era divertente, in effetti bastava una risata finta a farli scattare. Insomma, a un certo punto Ricci ha capito che gli italiani sono un popolo di pappagalli.

E ha tratto le sue conseguenze. Tormentoni facili da memorizzare e ripetere, e risate, risate finte ovunque. Se ogni tanto c’è anche una battuta, il comico te la spiega due volte. Se c’è una situazione buffa, te la ripete tre o quattro volte, perché è sicuro che la prima non ci arrivi. Se c’è una candid camera con un cane che salta per prendere un bastoncino e sbatte la testa contro un ramo, lui non si fida: qualcuno del pubblico potrebbe non capire che è divertente, meglio doppiare il cagnolino con una voce (dialettale, s’intende) che dice “Ahia che male”. Persino le tette devono essere molto evidenti, perché gli italiani fanno persino fatica ad arraparsi, e anche in quello si fidano molto del giudizio di chi hanno intorno. Persino il pupazzo è grosso, e di colore rosso acceso, perché i pappagalli reagiscono soprattutto ai colori.

Infine mi viene in mente qualcosa che non c’entrerebbe nulla con Ricci e Moretti; una vecchia prefazione a un romanzo della De Beauvoir che non ho in casa, e che diceva, se ricordo bene: state attenti. Voi questo romanzo lo leggete come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, e della questione femminile eccetera: ma al tempo serviva anche come manuale pratico sui locali da frequentare nel Quartiere Latino. Insomma, non c’è niente da fare. Ci sono persone – non necessariamente stupide – che leggono i libri, come noi. Che ascoltano la musica, come noi. Che vanno al cinema, magari con noi: ma tutto quello che ne tirano fuori è un campionario di vestiti da indossare, di locali da frequentare, di atteggiamenti da assumere. Esistono, queste persone. E molto spesso sono ragazze. Anche simpatiche. Ma un po' automatiche. Non so perché, ma accade, e me ne cruccio.
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Vizi italiani (1): gente volgare

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Scriverò meno parolacce
Scriverò meno parolacce
Scriverò meno parolacce

Davvero, non è per fare l’antisnob – che comunque sarebbe snob: io ricordo di essere stato felice, seriamente felice, appena Grosso segnò l’anno scorso. Parte della mia felicità derivava senza dubbio dal trovarmi in un’aula piena per metà di francesi, che per due ore ci avevano urlato nelle orecchie zizù, zizù (e una manciata di questi francesi ci toccò poi consolarla per lunghe ore, sempre per via del loro odiosoamato zizù, zizù). Ma non escludo per qualche minuto di essermi sentito davvero fiero di essere italiano, fiero di una nazionale senza molta classe ma con tanto carattere, e sudore, e scarponi, tutte caratteristiche che in fondo mi ritrovo.
Ricordo anche molto bene quando è finita: appena il pupone è salito sul palco della premiazione col tricolore a mo’ di foulard, come un tredicenne in gita scolastica. Insomma, è il momento più alto della tua carriera sportiva, è un momento di gioia per tutta la nazione, e tu fai il pagliaccio. Per conto mio la festa era terminata, e rovinata.

Se almeno Totti avesse avuto l’esclusiva della cafonaggine. Ma Gattuso, l’eroico Gattuso, invece di posare immediatamente per una statua di marmo da riprodurre e distribuire in tutte le piazze italiane, cominciava a bere e a dire sciocchezze ai giornalisti, estasiati. “Abbiamo avuto due coglioni grossi come una casa, nel senso che abbiamo lottato su tutti i palloni”. In mondovisione. In seguito avrebbe alluso a pratiche anali. Un bell’esempio per tutti i minorenni maschi d’Italia, ma del resto che cosa ti aspetti? Gattuso era allenato per l’occasione da un CT che a telecamere accese dava degli stronzi ai giornalisti.

Si fanno tanti confronti tra il 2006 e il 1982, il più delle volte giocando sui dati soggettivi: certo, nel 1982 mi divertivo anche solo a giocare a biglie sulla spiaggia, non c’è dubbio che stessi meglio, perciò viva Bearzot. Alcuni dati oggettivi però ci sono: quell’Italia segnava di più e non diceva le parolacce. Perlomeno non le diceva davanti ai microfoni, che per me fanno tutta la differenza.
Da emiliano, ho sviluppato una certa tolleranza per la bestemmia sul luogo di lavoro: ma quando parli ai microfoni, tu parli ai tuoi bambini. Non credo che Bruno Conti o Ciccio Graziani avessero uno spessore culturale superiore a quello di Totti o Gattuso, ma so che loro non avrebbero mai detto “abbiamo avuto due coglioni grossi come una casa”. Nel 1982 le parolacce avevano il loro posto, e il loro senso. Oggi no. Oggi sono abbellimenti retorici, per gente che si trova un microfono davanti e deve usare l’unica retorica che sa. “Non è per fare una leccata”, diceva Gattuso prima di fare un complimento a Del Piero. Coglioni, stronzi, leccate, vaffanculo: tutte parole vecchie, arcinote ben prima del 1982; la novità è che hanno tracimato. Si sentono in tv, in radio, sono il principale espediente usato dai registi italiani per far ridere il pubblico. Quel che è successo alla lingua italiana è che sono saltati i registri: quello basso e volgare ha contaminato tutti gli altri.

Gli inglesi non ne hanno un’idea. Gli inglesi sono convinti che Berlusconi abbia dato alla Thatcher della “gnocca” (l’Independent suggerisce di pronunciare “nyocca”), e questo basta per un articoletto di colore. In realtà Berlusconi ha detto persino di peggio: “Se fosse stata una bella 'gnocca' me la ricorderei ancora...” Invece, siccome la lady di ferro ha semplicemente piegato i laburisti, i sindacati e l’Argentina, Berlusconi fa un po’ fatica a ricordarsela. E uno se la dovrebbe prendere con Gattuso? Gattuso dice la parolaccia perché è l’unica cosa un po’ spiritosa che gli viene in mente, in fondo lui lavora coi piedi. Berlusconi invece lavora con la lingua, è un laureato, ha un intero impero editoriale che può scrivergli i discorsi, e puntualmente se ne esce con queste cose: la Thatcher non è una bella gnocca, Prodi dice stronzate, gli elettori non sono così coglioni da votare contro i loro interessi, eccetera. Senza dubbio Berlusconi ha qualche responsabilità nella degenerazione del lessico italiano, un fenomeno recente quanto lui. Ma non è senz’altro stato il primo. I due pionieri sono stati Bossi e Cossiga, anticipati forse da Pannella.

A questo punto – siccome qui non ci si accontenta del facile moralismo sulle parole volgari – bisogna spiegare cosa c’è, di così scandaloso, in questa tracimazione delle parolacce. Cosa ci perdiamo? Beh, per prima cosa ci perdiamo le parolacce. Sono preziose. Hanno un’energia rara, che deriva da un elemento (l’osceno) difficile da maneggiare. Ma come le monete, le parole soffrono l’inflazione. Ci fu un tempo in cui dare dello stronzo a qualcuno era quasi una maledizione biblica: come se l’obiettivo dell’insulto dovesse trasformarsi d'incanto in una colonnina di escremento solido. Ma se comincio a dare dello stronzo a chicchessia, il mondo non si popola di siffatte colonnine, al contrario: è la parola “stronzo” a sapere sempre meno di fece e sempre più di uomo. Alla fine oggi stronzo è quasi un complimento, nessuno pensa più che in principio trattavasi di materia fecale. Abbiamo guadagnato un sinonimo (abbastanza inutile) per “simpatica canaglia”, e abbiamo perso una parolaccia straordinariamente forte. Ecco un motivo per non dire più le parolacce: per salvarle dalla morte più grigia, la banalizzazione. Occorrerebbe invece lavorare in senso inverso: ridurre l'uso delle parole forti, salvarle per i momenti speciali. “Rogna”, in sé, non è nemmeno così volgare: ma quando Dante la piazza nel bel mezzo del Paradiso, sembra veramente che vengano giù i Santi.

Infine: la parolaccia è un limite del linguaggio. Se anche il lessico politico raggiunge quel limite, esaurisce tutte le sue possibilità (non a caso vi ricorrono spesso uomini politici anziani, che nulla più hanno da perdere). Di cosa parleremo negli spogliatoi e nelle caserme, quando gli onorevoli si saranno presi tutte le nostre parole sconce? Perciò abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente che la smetta di blandire il popolo con le battute da osteria, e se questa classe dirigente non c’è, ci arrangeremo con Veltroni, che questa cosa l’ha capita da tempo, almeno. L’ha capita meglio dei blogger, me compreso, che alla facile parolaccia indulgono.

E tuttavia, se da (cattivo) politico volentieri lancerei una campagna paternalista anti-parolaccia, da (cattivo) linguista sarei scettico sui risultati. Non è così che vanno le cose. Quando le parole tracimano, tracimano, non c’è niente da fare. Forse puoi convincere Gattuso a non dire più “coglioni” in conferenza stampa (e in effetti è incredibile che nessuno glielo abbia spiegato), ma non i bambini che ormai Gattuso lo hanno sentito. Direi che tutte le parolacce della mia generazione ormai sono state assorbite dal lessico tv. Come a dire che hanno smesso di essere parolacce, e che difficilmente i posteri le riconosceranno tali. I nostri sbadati lettori futuri troveranno estremamente formali le nostre dispute a base di “stronzo” e “vaffanculo”, esattamente come noi irridiamo gli antenati coi loro “perdindirina” e “Gesù Giuseppe e Maria”.
Non avete un’idea di quante parole d’uso comune o persino scientifico siano state, in un’altra epoca, parole sconce. La vagina era il fodero della spada, il glande era la ghianda: eufemismi piccanti da non pronunciare davanti a una signora. In fondo la volgarità è una porta del linguaggio, da cui entra il materiale grezzo che nel corso dei secoli l’erosione dell’uso trasforma in parola comune. Mettersi davanti alla porta è un gesto abbastanza stupido. E allora?
E allora vaffanculo. Forse vale la pena di sdoganarle tutte, ripeterle fino alla noia, finché non perdano quell’infinitesimale residuo di simpatica volgarità che trattengono ancora. Quando saranno parole come le altre, Berlusconi non avrà nemmeno più interesse a pronunciarle.
E nel frattempo ci sarà sempre, in uno spogliatoio o in un campeggio, qualche oscuro geniale ragazzino pronto a inventare sconcezze nuove. Perché ce n’è bisogno. Basta che non tracimino subito: la lingua ha i suoi tempi.
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